Prof. Osimo qual è la cosa che chi decide di intraprendere questo mestiere deve assolutamente avere?

L’atteggiamento mentale tipico del mediatore linguistico è quello di una persona che si mette nei panni degli altri, immaginandosi cosa l’altro può capire e cosa può fraintendere da un messaggio fatto di parole. Le parole che noi usiamo per esprimere le idee che abbiamo nella mente sono solo goffi tentativi di espressione di qualcosa che, finché è nella mente, vaga in modo più o meno confuso sotto forma non di parole, ma di pensieri. I pensieri non sono frammentari come le parole, ma continui come un flusso d’acqua. Le parole cercano di intrappolarne dei frammenti, ma c’è sempre una certa percentuale d’intraducibilità. In termini tecnici si dice che il linguaggio mentale è continuo, mentre il linguaggio verbale è discreto. E la traduzione dal discreto al continuo, e dal continuo al discreto, è per principio imperfetta. Il mediatore linguistico deve prenderne atto e usare questa consapevolezza sia in fase interpretativa (decodifica) sia in fase generativa (codifica).

Come coniuga le diverse attività che da anni conduce? E quanto è importante la contaminazione tra ambiti differenti?

“Credo che sia una questione di carattere. Molti miei colleghi arricciano il naso già solo per il fatto che traduco da due lingue (russo e inglese) anziché specializzarmi maggiormente in una sola. Quando poi ho lavorato nel campo settoriale informatico, era quasi inconcepibile per qualcuno che io per metà traducessi dall’inglese software e hardware e per metà dal russo i racconti di Tolstoj. Io però non ho potuto farne a meno, anche per motivi pratici. Col tempo ho scritto anche il Manuale del traduttore, e questo mi ha dato una responsabilità anche come teorico e divulgatore a cui non avevo pensato prima di farlo. E anche la letteratura artistica (come la chiamano i russi) a cui mi sono dedicato in seguito è venuta fuori da sola, senza premeditazione. Diciamo che preferisco avere tante idee confuse che avere poche idee certe”.

Dei libri che lei ha scritto quale consiglierebbe ai suoi studenti e perché? 

La relazione docente-studente è necessariamente asimmetrica, e oggi i tentativi postsessantottini di  ‘democratizzare’ l’insegnamento (diamoci del tu, sediamoci tutti intorno allo stesso tavolo) ci appaiono comici e innaturali. Perciò un docente che consiglia letture agli studenti suona un po’ strano, perché normalmente i libri consigliati sono quelli in realtà necessari per superare questo o quell’esame. Forse l’unico libro che mi sentirei di consigliare è uno che non ho ancora scritto, ma che ho in animo di scrivere nei prossimi mesi: una storia ironica delle mie avventure col mestiere del tradurre. Perché in realtà il caso svolge un ruolo molto più importante di quanto poi emerga dalle ricostruzioni storiche.

In tanti anni di insegnamento ai futuri interpreti e traduttori a lei cosa è rimasto?

È agli studenti che devo la mia curiosità di ricerca sulla traduzione. Nel 2001 ho tenuto il mio primo corso di quella che oggi potremmo chiamare «teoria della mediazione linguistica», e all’epoca faticavo già abbastanza a stare dietro al programma che mi ero dato per farmi venire altri pensieri. Ma col tempo, le osservazioni degli studenti, le loro domande (che a volte loro ritengono stupide, ma non lo sono affatto) mi hanno stimolato a mettere continuamente in discussione i concetti e i programmi. Se in questi vent’anni ho scoperto qualcosa di nuovo sui meccanismi della traduzione è grazie ai miei allievi, specialmente a quelli che sono riusciti a vincere la timidezza e a farmi le loro domande tutt’altro che stupide. Tant’è vero che il Manuale del traduttore, uscito nel 1998, ha avuto altre due edizioni che lo hanno radicalmente trasformato, anche nel numero di pagine.

Riguarda il video di:

Bruno Osimo e Valutrad al corso triennale in scienze della mediazione linguistica Padova

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